Ore 18.30
In un pomeriggio più caldo di due ratti che trombano in un calzino di lana, John McBride, uno e ottantacinque abbondanti, quasi cento chili, le manone come prosciutti, un fisico da cinghiale selvatico con un carattere dello stesso genere, arrivò all’isola di Galveston col traghetto che veniva dalla costa del Texas; aveva una sei colpi sotto il spprabito e un rasoio in una scarpa.
Mentre il traghetto attraccava, McBride mise giù la valigia, si tolse la bombetta, prese un bel fazzoletto bianco nuovo di zecca da una tasca del soprabito, lo usò per asciugare l’inceratino della bombetta, poi per detergersi il sudore dalla fronte, quindi se lo passò sui radi capelli neri per rimettersi infine il cappello.
A San Francisco un vecchio cinese gli aveva detto che i capelli li stava perdendo perché portava sempre il cappello, e McBride aveva deciso che poteva anche avere ragione; però adesso il cappello lo portava per nascondere la propria calvizie. All’età di trent’anni sentiva di essere troppo giovane per perdere i capelli.
Il cinese gli aveva venduto a una cifra considerevole un tonico dall’odore dolciastro che avrebbe dovuto risolvere il suo problema. McBride lo usava con devozione religiosa, strofinandoselo sullo scalpo. Finora, l’unico effetto visibile era stata la lucidatura della sua pelata. Se mai fosse tornato a San Francisco era il caso di andare a trovare quel cinese, magari per fagli un paio di bernoccoli sulla testa.
“Il giorno dell’uragano“,
Joe R. Lansdale — pag. 19-20
(Fanucci Editore)