«Non ti muovere» l’avvertì St. Clair. «Il ballerino è uno yurydivey, un folle. Persino lo zar tratta con rispetto quelli come lui.» Il gesuita le si accovacciò accanto. «Sembra che tu le piaccia.»
Lo yurydivey si fermò di colpo per osservare a occhi sbarrati la piccola croce di metallo al collo del gesuita, poi avanzò prudente, la mano tesa a carezzargli il viso come farebbe una mamma con il suo piccino.
«Problemi?» domandò Cowper avvicinandosi.
Lo yurydivey, adesso a quattro zampe, si avvicinò a St. Clair come un cane, strusciandosi contro le sue gambe. Aveva gli occhi sgranati per lo stupore, scuoteva la testa come se non riuscisse a credere a quel che vedeva. D’un tratto si prostrò, battendo tre volte la fronte per terra. St. Clair gli sfiorò i capelli dicendo qualche parola in russo. Lo yurydivey si alzò di scatto, battè le mani e se ne andò danzando e cantando a squarciagola.
«Bene, hai reso felice un russo» disse Cowper con tono acido, poi osservò gli altri due. «Cos’hai di speciale? Pensavo che i russi si prostrassero solo davanti alle icone e agli oggetti sacri.»
«Porto la croce» rispose St. Clair semplicemente. «E in Russia il labbro leporino è segno di favore divino, significa che Rebecca è stata baciata da un angelo.»
Rebecca avrebbe voluto protestare, ma si sforzò di tenere a freno la bocca. Lo yurydivey era apparso intrigato dalla sua presenza, ma aveva dimostrato un rispetto genuino solo per St. Clair.
«Forza!» Il gesuita si drizzò, facendo segno ai facchini di muoversi. «Alloggeremo in una kibak, una tipica taverna russa. Bagni caldi, buon cibo, poi si riparte.»
“Il ladro di anime“,
Paul Doherty – pag. 251-252
(Piemme Pocket)